martedì 29 aprile 2008

Terapia genica per l'Amaurosi congenita di Leber: risultato importante, ma non è la cura

Una precisazione dei ricercatori dopo aver letto i titoli di alcuni giornali

A seguito della conferenza stampa svoltasi ieri a Roma in cui sono stati presentati i primi incoraggianti risultati della terapia genica su tre pazienti italiani affetti da amaurosi congenita di Leber, molti giornali e tg hanno "forzato la mano" con titoli esagerati che rischiano di fare confusione e di creare false aspettative in molti pazienti. Titoli tipo "Ciechi che vedono", "Cecità sconfitte", "Vista restituita" non corrispondono a quanto comunicato dalla Fondazione Telethon e sono in contraddizione anche con i testi dei servizi giornalistici che seguono.

Nella speranza di contribuire a fare chiarezza sulla reale portata dei risultati presentati, pubblichiamo perciò di seguito un breve testo scritto da Francesca Simonelli e condiviso da Alberto Auricchio, i due ricercatori italiani che insieme ai colleghi statunitensi hanno seguito il trial clinico sui tre pazienti italiani.

L'Amaurosi congenita di Leber è una malattia degenerativa della retina molto grave, che si manifesta già nella prima infanzia e che crea nel corso degli anni una severa riduzione della vista. I risultati della prima terapia genica effettuata nei tre pazienti italiani sono molto incoraggianti, perché segnalano, sia pure in una condizione di stato molto avanzato della malattia, un parziale recupero della vista. Ciò si traduce nella capacità acquisita dai pazienti dopo l'intervento, di poter leggere con l'occhio trattato, dalle tre alle cinque righe di una tavola ottotipica posta a cinquanta cm., in un allargamento del campo visivo e nella capacità di effettuare un percorso ad ostacoli senza errori. Questo risultato è molto importante in relazione alle condizioni preesistenti dei pazienti, ma è ovviamente ancora lontano da un recupero completo della visione.

Successo del primo intervento al mondo di terapia genica eseguito su tre italiani affetti da sindrome di Leber

Effettuato negli Usa grazie ad un lavoro di equipe internazionale. Coinvolti a Napoli il Tigem e la Seconda Università, a Philadelphia il Children's Hospital.

Per la prima volta al mondo è stato eseguito con successo un intervento di terapia genica sull'uomo per curare una grave forma di cecità ereditaria, l'amaurosi congenita di Leber. Si è trattato di un complesso lavoro di equipe internazionale che oltreoceano ha fatto capo al Children Hospital di Philadelphia e, nel capoluogo partenopeo, all'Istituto Telethon di Genetica e Medicina (Tigem) e al Dipartimento di Oftalmologia della Seconda Università degli Studi di Napoli. L'intervento è stato eseguito con l'iniezione nello spazio sottoretinico dell'occhio di un vettore virale, contenente la versione sana del gene alterato. Il gene corretto si è inserito stabilmente nella retina e ha prodotto la proteina mancante negli individui malati.

I risultati pubblicati sul New England Journal of Medicine*, aprono prospettive incoraggianti: in tutti i pazienti sottoposti a questa prima fase dello studio, infatti, non si sono riscontrati effetti tossici e, ad alcuni mesi di distanza, si sono già potuti osservare miglioramenti significativi della funzionalità visiva. Per esempio, nei pazienti sono migliorate la percezione del campo visivo, la risposta della retina alla luce e la capacità di eseguire alcuni test di mobilità.

Prof. Alberto Auricchio
A partecipare a questo primo trial clinico sono stati due gemelli di 26 anni di Agrigento e una ragazza di 19 anni di Pavia. La parte italiana dello studio, finanziata da Telethon, è stata coordinata da Alberto Auricchio (nella foto), ricercatore del Tigem e professore associato dell'Università "Federico II" di Napoli. Per il Tigem hanno partecipato anche Enrico Maria Surace e Sandro Banfi, che ha eseguito lo screening genetico delle persone idonee all'intervento. Sul versante clinico, il reclutamento e il follow-up dei pazienti sono stati coordinati da Francesca Simonelli del Dipartimento di Oftalmologia della Seconda Università degli Studi di Napoli. La sintesi del vettore virale e l'intervento chirurgico sono avvenuti al Children's Hospital di Philadelphia, sotto la supervisione di Jean Bennett.

I risultati di questo importante lavoro sono stati presentati il 29 aprile a Roma da Auricchio e Simonelli, con la partecipazione di Susanna Agnelli, presidente di Telethon, e di Andrea Ballabio, direttore del Tigem. Un annuncio che avviene a soli quattro giorni di distanza da quello di un'altra importante scoperta, da parte dello stesso gruppo di ricerca: la possibilità di inserire geni di dimensioni decisamente maggiori rispetto a prima all'interno di particolari vettori per la terapia genica. Questo avanzamento tecnologico, descritto sul Journal of Clinical Investigation, mostra come la terapia genica possa essere sfruttata d'ora in avanti anche per la cura di malattie dovute all'alterazione di geni grossi, come per esempio la malattia di Stargard, la distrofia muscolare di Duchenne, l'emofilia di tipo A e la fibrosi cistica.

L'amaurosi congenita di Leber è una grave malattia genetica che colpisce la retina e provoca cecità o grave danneggiamento della vista già nei primi mesi di vita. Al momento non esistono cure: la terapia genica può quindi rappresentare la strategia vincente per contrastare o curare questa patologia congenita. I prossimi passi consisteranno nel testare la mancanza di tossicità anche a dosaggi più alti e su un numero maggiore di pazienti, valutando nel tempo gli effetti a lungo termine.

*Albert M. Maguire, Francesca Simonelli, Eric A. Pierce, Edward N. Pugh, Federico Mingozzi, Jeannette Bennicelli, Sandro Banfi, Kathleen A. Marshall, Francesco Testa, Enrico M. Surace, Settimio Rossi, Arkady Lyubarsky, Valder R. Arruda, Barbara Konkle, Edwin Stone, Junwei Sun, Jonathan Jacobs, Lou Dell'Osso, Richard Hertle, Jian-xing Ma, T. Michael Redmond, Xiaosong (Sonia) Zhu, Bernd Hauck, Olga Zelenaia, Kenneth S. Shindler, Maureen G. Maguire, J. Fraser Wright, Nicholas J. Volpe, Jennifer Wellman McDonnell, Alberto Auricchio, Katherine A. High, Jean Bennett, "Safety and Efficacy of Gene Transfer for Leber Congenital Amaurosis". The New England Journal of Medicine, april 2008.

Per saperne di più…

Le basi della terapia genica

Che cos'è la terapia genica?
Si definisce terapia genica la procedura che consente di trasferire materiale genetico (DNA) allo scopo di prevenire o curare una malattia. Nel caso delle malattie genetiche, in cui un gene è difettoso o assente, la terapia genica consiste essenzialmente nel trasferire la versione funzionante del gene nell'organismo del paziente, in modo da rimediare al difetto. In altre patologie si può invece voler uccidere in modo mirato le cellule patologiche. Solitamente questo approccio è molto diffuso nella terapia genica contro il cancro. Alcuni geni possono essere infatti trasferiti nelle cellule tumorali in modo da causare la morte delle cellule che li ricevono. Un'altra strategia ancora prevede il trasferimento di geni all'interno di cellule malate allo scopo di bloccare il meccanismo alterato che causa la malattia.
L'idea di base della terapia genica è semplice, tuttavia la sua realizzazione pratica è un vero e proprio percorso ad ostacoli.
La terapia genica è una scienza giovane: il primo tentativo fu effettuato negli Stati Uniti da Michael Blaese nel 1990 su una bambina affetta da SCID, una grave immunodeficienza ereditaria. Da allora, nonostante gli indubbi progressi raggiunti, sono ancora pochissimi i tentativi di terapia genica per i quali si possa parlare di un successo dal punto di vista clinico. Il successo della terapia genica rimane una prospettiva per il prossimo futuro. Ad oggi, le numerose ricerche condotte in tutto il mondo hanno soprattutto lo scopo di migliorare le conoscenze biologiche di base e le metodiche di terapia genica perché possa finalmente diventare uno strumento efficace nelle mani dei medici.

La terapia genica è la stessa per tutte le malattie?
Non necessariamente. Anche se tutti i protocolli di terapia genica si basano essenzialmente sugli stessi principi ed utilizzano metodiche simili, ogni malattia - oltre che l'isolamento del gene o dei geni specifici - richiede spesso anche la messa a punto di una metodica differente. Molto spesso è il bersaglio ad essere differente: ad esempio, i tentativi di terapia genica per curare la fibrosi cistica hanno come principale bersaglio le cellule delle vie aeree, mentre quelli per le immunodeficienze mirano a trasferire il gene nelle cellule del sangue. È evidente che ognuna di queste malattie, oltre che i problemi comuni a tutte le tecniche di terapia genica, pone delle sfide tecniche peculiari.

Terapia genica in vivo e terapia genica ex-vivo
Le procedure di terapia genica in vivo mirano a trasferire il DNA direttamente nelle cellule o nei tessuti del paziente. Nelle procedure ex-vivo, invece, il DNA viene dapprima trasferito in cellule isolate dall'organismo e cresciute in laboratorio. Le cellule così modificate possono essere reintrodotte nel paziente. Questa procedura indiretta, anche se più lunga, offre il vantaggio di una migliore efficienza di trasferimento e la possibilità di selezionare e amplificare le cellule modificate prima della reintroduzione.

Prima tappa: l'isolamento del gene
La prima tappa verso la terapia genica è l'identificazione del gene responsabile di una malattia o coinvolto in un processo patologico. Un gene è una porzione di DNA che contiene le informazioni necessarie a fabbricare una proteina. Quindi prima di pensare a trasferire un pezzo di DNA in un paziente per riparare un difetto è necessario "avere in mano" il pezzo giusto. Questa prima tappa si chiama isolamento o clonaggio del gene. Nessuna malattia è candidata alla terapia genica fino a che non sia stato isolato il gene (o i geni) da trasferire.
Grazie ai progressi della biologia molecolare e della genetica questa prima tappa è oggi relativamente più semplice rispetto a qualche anno fa. È stato possibile isolare numerosi geni responsabili di malattie genetiche, ed altri se ne scoprono quasi ogni settimana.

Trasferimento del DNA nelle cellule bersaglio
Che si tratti di procedure in-vivo o ex-vivo lo scopo è lo stesso: il gene deve essere trasferito all'interno delle cellule bersaglio, e una volta inserito deve "resistere" per un tempo sufficiente. In questo tempo il gene "sano" deve essere funzionale e produrre sufficienti quantità di proteina, rimediando così al difetto genetico.
Si possono riassumere tutte queste caratteristiche in un solo concetto: il gene estraneo si deve esprimere in modo efficace nell'organismo ospite.
Il sistema più semplice sarebbe naturalmente quello di iniettare direttamente il DNA (DNA "nudo") nelle cellule o nei tessuti da curare. Nella pratica questo sistema risulta estremamente inefficace: il DNA nudo viene captato molto difficilmente dalle cellule. Inoltre questo processo richiede l'iniezione di ogni singola cellula o gruppo di cellule del paziente.
Per questo quasi tutte le tecniche correnti per il trasferimento del materiale genetico implicano l'uso di vettori, in grado di trasportare il DNA all'interno delle cellule "bersaglio" dell'ospite. I vettori possono essere virali o non virali.
I vettori virali sono virus manipolati geneticamente in modo da non risultare pericolosi, che però mantengono la capacità naturale di infettare le cellule dell'ospite e introdurre materiale genetico all'interno. Con le tecniche di ingegneria genetica è possibile aggiungere al DNA del virus il gene che si vuole trasferire. Così il virus, infettando la cellula bersaglio, porterà con sé una o più copie del gene desiderato. I vettori virali possono essere di diverso tipo:

  • i retrovirus che hanno la capacità di integrare il loro DNA all'interno dei cromosomi delle cellule bersaglio determinando l'inserimento stabile del gene nei cromosomi delle cellule infettate e il suo trasferimento a tutte le cellule figlie; i retrovirus infettano solo cellule che stanno proliferando;
  • i lentivirus, come l'HIV, che permettono di trasferire materiale genetico anche in cellule che non proliferano, come le cellule "mature" (es. neuroni, cellule del fegato ) o in cellule particolarmente refrattarie ai retrovirus (es. cellule staminali prelevate del midollo osseo);
  • i virus adenoassociati che integrano il loro DNA nei cromosomi della cellula ospite come i retrovirus, ma hanno rispetto a questi il vantaggio di essere per natura innocui; difficilmente trasportano geni di grandi dimensioni;
  • gli adenovirus, che non si integrano nei cromosomi della cellula ospite, ma possono trasportare geni di grosse dimensioni; tuttavia la loro espressione non dura nel tempo;
  • virus dell'herpes simplex infettano soltanto alcuni tipi di cellule, in particolare i neuroni e sono quindi indicati per la terapia di patologie neurologiche.

Per quanto riguarda i vettori non virali, i liposomi sono essenzialmente gli unici vettori non virali correntemente utilizzati. Si tratta di sferette lipidiche all'interno delle quali viene impacchettato il DNA da trasferire. Rispetto ai virus, hanno il vantaggio di non presentare alcun rischio in termini di sicurezza, ma tendono ad avere un efficienza minore e ad essere poco selettivi.
Altre metodiche non basate sull'uso dei virus come trasportatori di geni per la terapia genica, sono oggetto di sperimentazione.

I limiti della terapia genica
Sono numerosi i problemi irrisolti della terapia genica con i quali si trovano a combattere gli scienziati. Vediamoli in sintesi.

La sicurezza della procedura
Questo è un problema particolarmente evidente per i vettori virali. Alcuni di questi derivano infatti da virus pericolosi, come l'HIV. È quindi necessario che prima dell'utilizzo questi vettori siano privati della virulenza originaria del virus e mantengano invece inalterata la capacità di infettare le cellule bersaglio.

Efficienza di trasferimento
Negli studi sulla terapia genica, la maggior parte degli sforzi si concentra oggi sulla ricerca di vettori in grado di trasferire il DNA in modo efficiente e di inserirlo stabilmente nelle cellule.

Selettività del bersaglio
In questi ultimi anni sono stati messi a punto una varietà di vettori, alcuni dei quali in grado di fare esprimere il gene estraneo in uno specifico tipo cellulare (come i globuli bianchi, le cellule del muscolo, delle vie respiratorie ecc…).

Durata dell'espressione del gene trasferito
La terapia genica risulta praticamente inutile se l'espressione del gene "estraneo" non viene mantenuta per un tempo sufficiente. Le ricerche mirano a sviluppare sistemi che permettono un espressione duratura, in modo da sottoporre il paziente ad un unico trattamento, o al limite a trattamenti ripetuti a distanza di qualche anno.

La reazione immunitaria
Come ogni altra sostanza estranea, il prodotto del gene nuovo, il gene stesso e soprattutto il vettore possono scatenare una risposta immunitaria da parte dell'organismo ospite. Questa può portare all'eliminazione delle cellule modificate geneticamente, o all'inattivazione della proteina prodotta dal nuovo gene, annullando quindi tutti gli effetti della terapia. Nello sviluppo delle nuove strategie di terapia genica si cerca di evitare per quanto possibile che il vettore o il gene estraneo producano una reazione immunitaria.